Quando decido di fare una bella camminata è sempre una magnifica giornata, e non solo per le condizioni meteorologiche.
L’idea di potermi tuffare in un nuovo mondo di profumi e silenziosi paesaggi è una sempre una grande gratificazione.
Sono passate da un pò le otto del mattino, e l’umida aria di fine novembre è molto meno fredda di quel che pensavo.
Parcheggio il Discovery accanto alla recinzione del campo di calcio di San Piero, probabilmente nel primo pomeriggio sarà animato da grida e colori ma ora tutto tace, investito dai primi raggi del sole solo un cane, prematuro spettatore, sembra attendere impaziente il fischio d’inizio.
Decido di alleggerire subito il vestiario e mi tolgo la vecchia e scolorita giacca in Gore Tex a cui sono troppo affezionato legandola all’esterno dello zaino, qualora si alzasse vento potrò indossarla rapidamente.
Con la stessa fierezza con cui un reduce di guerra fa mostra delle sue cicatrici faccio sfoggio orgoglioso di alcuni fori della sua manica destra, regalo di un fitto intreccio di pruni che attraversai durante un’appassionante gara di orientamento qualche anno fa.
I bastoncini da trekking e le due borracce fissate agli spallacci dello zaino che mi guarniscono il torace, completano l’attrezzatura conferendomi un aspetto molto più professionale di quanto in realtà io sia.
Oramai il mio Garmin Summit ha agganciato un sufficiente numero di satelliti, il che mi garantisce una discreta precisione nel tracciare il percorso, lo resetto, cancellando le precedenti tracce e lo fisso grazie alla sua custodia di protezione in alto sulla fibbia dello zaino, do un ultimo sguardo alla mappa per memorizzare la direzione e mi metto in cammino.
Il sentiero 35 inizialmente segue un’interpoderale fino ad un masso di granito, dove svolta a sinistra e restringendosi continua con un’ascesa graduale.
Mentre la suola dentata degli scarponi morde la terra umida e sabbiosa del terreno, supero con scarso interesse quello che sembra un fatiscente recinto di polli, e mi ritrovo lungo una salita lastricata che proviene dalla cava sottostante, senza dubbio un tempo trafficata via di transito per coloro che facevano della lavorazione del granito la fonte del loro sostentamento.
Non presto la dovuta attenzione ad un’anonima deviazione sulla sinistra e proseguo dritto lungo quello che ritengo il sentiero principale, sarà un grave errore.
Benché a prima vista mancante di quella caratteristica segnalazione bianco rossa, che peraltro trovo lungo quello errato, avrei dovuto investigare di più su quella biforcazione… ma con il senno di poi è sempre tutto semplice.
Ben presto mi rendo conto che sto andando fuori rotta, la mia attenzione non è più dedicata all’avvenente paesaggio circostante e con passo sempre più svelto cerco freneticamente indizi di conferma su dove mi sto muovendo.
Il mio pensiero corre sempre più a colui che si è preso l’onere di marcare così malamente il sentiero, così dopo qualche minuto, saluto con un colorito rosario l’incontro con un’indicazione del sentiero n° 7, esattamente l’opposto di dove sarei dovuto andare!
Bagnato da un sudore di rabbia più che di fatica, decido di continuare sul 7, lo conosco e so dove mi porta: alle Piane al Canale da dove con il 34 incrocerò l’agognato 35!
Affronto la salita con notevole impegno, smaltire la rabbia e recuperare il tempo sprecato sono i miei momentanei principali obiettivi.
Il terreno solcato dagli acquazzoni, mi riporta alla memoria le prove di abilità di amici, quando molti anni fa, alla guida dei loro fuoristrada si allenavano a superare impegnativi twist; una particolare situazione in cui il veicolo, nell’attraversare diagonalmente per esempio un fossato, poggia solo con una ruota anteriore e l’opposta posteriore, ciò ne pregiudica ovviamente la trazione, a meno che l’auto sia dotata di blocco dei differenziali… o di un esperto pilota.
Alle Piane al Canale senza fermarmi, approfitto del breve tratto pianeggiante dove il 7 ed il 34 procedono affiancati per riprendere fiato e bere un sorso d’acqua fresca.
L’area circostante mostra ancora i segni del nefasto incendio del 2003.
La bassa vegetazione ha ricoperto buona parte del terreno ma non è ancora riuscita a cancellare i tronchi scheletrici dei pini che un tempo rigogliosi formavano un bellissimo bosco.
Nelle radure decorate da felci nascondevamo sapientemente bersagli di varie dimensioni, erano i primi anni novanta e questa era la nostra meta prediletta per organizzare le gare di tiro con l’arco.
Non potevamo chiedere di meglio, sottobosco pulito, perfetti giochi di luce, morfologia del terreno che alternava zone pianeggianti a dislivelli di varie forme e grandezze, e la vista poi, riusciva ad incantare gli arcieri di tutta Italia… ne siamo sempre stati orgogliosi.
A quel tempo lo praticavo a livello agonistico, con un ridotto ma affiatato gruppo di arcieri: la 09 ALCE.
Ancora assorto in qui piacevoli ricordi supero il bivio con il 30 che porta alle Macinelle e raggiungo Pietra Murata.
Il Masso alla Quata e la più alta vetta delle Calanche alle mie spalle si stagliano immobili nell’azzurro versante nord, di fronte a me invece solo pochi massi mi nascondono la vista della piatta e piccola Pianosa.
La salita finalmente è terminata, almeno per un po’ ed in pochi minuti con una sconnessa discesa raggiungo l’intersezione con il 35.
E’ passata un’ora e mezza dalla mia partenza e di fronte al piccolo scoglio che ne marca il punto, resto titubante sul da farsi.
Il saggio grillo parlante che porto quasi sempre con me, mi suggerisce di proseguire a destra verso ovest, ma stranamente non oppone troppa resistenza ad accettare la mia proposta tanto assurda quando testarda di voler capire dove ho perso il 35; così accetta di seguirmi, limitandosi “solo” ad impormi un’andatura veloce, e chi mi conosce sa cosa intendo.
Mi tuffo in quella che interpreto come una speciale, come se i già fatti 5,6 chilometri di salita fossero solo un lontano ricordo, il passo svelto concessomi dallo sviluppo pressoché pianeggiante del percorso mi mette subito di buon umore ed agitando rapidamente i miei bastoncini Gabel evito i bassi mucchi di cisto come uno sciatore i paletti del suo migliore slalom speciale.
Supero il mulino del Moncione senza fermarmi, concedendomi solo il salto indietro nel tempo che attraversare quel luogo evoca immancabilmente in ogni viandante.
Una stretta lastra di granito aiuta a superare il piccolo rivolo d’acqua, luogo di ristoro per animali e piante.
Sento di essere vicino alla meta, il sentiero si allarga e per un po’ ritorna ad essere la vecchia strada scassata di una volta, solo un ultimo ampio tratto ricurvo mantiene ancora desta la mia curiosità.
Un grosso masso con un piccolo cippo in granito accanto sembrano confermare che ci sono, ed infatti pochi metri e incrocio quel tratto lastricato che avevo percorso inizialmente in salita!
A prima vista l’assenza di segnali o indicazioni pare confermata, ma guardando bene mi rendo conto che in effetti la deviazione era segnalata, una freccia rossa di circa sei centimetri è stata segnata a terra su una pietra proprio ad indicare l’imminente svolta a sinistra.
Resto stupefatto ed affascinato dalla grandezza di quel tratto, dedicare anche pochi secondi per redigere quella piccolo sbaffetto deve veramente aver appagato il diligente marcatore di sentieri.
Marco il waypoint nel Summit e torno indietro velocemente cercando di dare un volto a questo diabolico personaggio.
L’ottimismo mi accompagna anche lungo il ritorno, solo il mio interesse stavolta è dedicato maggiormente al paesaggio piuttosto che alla ricerca dei segni bianco rossi.
Brezza leggera e correnti si divertono a disegnare sulla superficie del mare un affresco in continuo movimento, mentre alcune nuvole si lasciano cullare dalle ultime forze di un grecale che da questa notte non ha più voglia di soffiare.
Ritorno al piccolo scoglio bivio con il 34 dopo poco più di un’ora, sono le 11 e 08 ed intanto i chilometri fatti sono già quasi 11.
Questa assurda deviazione mi è costata tempo e fatica, non che la cosa mi disturbi più di tanto, ma dato che ho promesso di rientrare a casa nel primo pomeriggio, temo solo di non riuscire a mantenere la parola data.
Il nuovo tratto continua a scendere, passo un prunaio fortunatamente senza danni, e chinandomi un po’ per evitare le basse fronde di un albero, attraverso il piccolo corso d’acqua del fosso dei Malocci.
Benché dotato di un buon paio di scarponi de La Sportiva con suola in Vibram, sento subito che il tratto di roccia umida su cui mi sto muovendo non è affatto sicuro, cercando di usare la massima attenzione, scarico parte del peso sui bastoncini da trekking, ma anche questa soluzione non sembra migliorare molto le cose, i puntali ormai consumati da chilometri di strada hanno perso tutto il grip di quando erano nuovi.
Con un ultimo balzo, roba da far morire da ridere anche il più malandato muflone, esco da quella zona scivolosa, ed in costante discesa supero anche il successivo fosso dell’Inferno.
Benché passati molti anni, ricordo benissimo e con nostalgia quando ancora nel buio della notte, fucile in spalla attraversavo questi luoghi insieme a Valerio e Marino.
Quelle cacciate in compagnia si risolvevano quasi sempre in tante risate e poca selvaggina, e forse proprio per quello le rimpiango ancora.
Abituato alla silenziosa difficoltà della caccia con l’arco, apprezzavo volentieri quelle camminate spensierate dove la principale vittima erano i nostri cappelli.
Lasciarlo incustodito anche per un solo istante equivaleva a vederlo volare in aria trafitto nel peggiore dei casi da una scarica di pallini.
Altri tempi, altre età… beh forse solo altri tempi!
Nel vederla sulla mia destra, ripenso ora soddisfatto alla piccola piramide di pietra che poco tempo fa ho realizzato per marcare il brusco cambio di direzione del 35, altra giornata di arrabbiature per la negligenza con cui vengono segnalati alcuni sentieri, o per lo meno alcuni tratti.
Continuare per l’ampio cammino sarebbe stato un altro imperdonabile errore che mi avrebbe portato dentro un podere privato di un certo Claudio, come recita il cartello al lato del cancello.
La dura salita zigzagante fortunatamente è di breve durata, per lo meno nella fatica, e nel riprendere fiato con un involontario secco colpo di tosse, metto in fuga una coppia di mufloni che tranquillamente camminavano avanti a me, sorrido nel vederli sparire ed approfitto delle piacevole distrazione per mangiarmi alcune corbezzole mature che mi vengono gentilmente offerte dalle piante alla mia destra.
Alle 11 e 47 incrocio il numero 8 che taglia quasi perpendicolarmente il 35, come frettoloso di salire sotto la Grottaccia e raggiungere poi Malpasso; 5,5 chilometri di calvario che dai circa 13 metri sul livello del mare di Seccheto in pressoché costante ascesa portano fino agli 843 metri di Malpasso; prima o poi dovrò provare a farlo anche in salita!
Addentrandomi in una più fitta vegetazione, raggiungo un nuovo bivio, questa volta privo di segnalazione, a destra poco più in alto scorgo una piccola costruzione in muratura, forse una stazione di pompaggio dell’acqua, opto così per la sinistra pregando che sia la scelta giusta, per oggi ne ho abbastanza di giri a vuoto e so bene che chiedere aiuto alla cartina è perfettamente inutile.
Fortunatamente stavolta la scelta è indovinata, e sempre salendo raggiungo la deviazione che sotto monte Cenno porta verso il GTE.
Un vero peccato che alcune nuvole basse precludano la vista, lo spettacolo sarebbe stato eccezionale.
Da questo punto in poi il sentiero segue piuttosto agevolmente il crinale della collina che separa Seccheto da Fetovaia fino ad un grosso masso su cui con vernice fresca è ben riportato anche il numero 35.
Procedere oltre, come evidenziato nella cartina da una lunga serie di puntini, è più difficile, perché del sentiero nessuna traccia.
Così dopo aver appoggiato il gps su un sasso per evitargli di registrare tracce fasulle, perdo una decina di minuti nel vano tentativo di trovare qualche indizio su dove passare.
Non mi resta che tirare dritto per quella che ritengo la direzione giusta, aiutato dalla bassa e non troppo fitta vegetazione che in una zona rocciosa e così esposta al vento fortunatamente non ha avuto modo di svilupparsi troppo.
Dopo pochi minuti di fuori pista noto a ore 2 una piramide di pietre, mi sposto subito in quella direzione, scoprendo con mio piacere uno stretto varco fra i mucchi di cisto marino.
Per circa 400 metri contino a scendere verso sud est, costantemente aiutato dalle piramidi di sassi poste qua e là, fino a raggiungere un’indicazione che indirizzandomi a destra mi porta su quella che ritengo una vecchia abbandonata strada sterrata, almeno la sua larghezza sembra farlo pensare, e che con un costante e graduale semicerchio mi riporta in direzione di Seccheto, il n° 37.
Mi rilasso nel costeggiare le abitazioni di via della Greppa, ed il mio stomaco ne approfitta subito per ricordarmi che gradirebbe un po’ di cibo, solo le 12,15 ed è ora di pranzo.
Attraverso così il piccolo paese ed approfitto di un soleggiato tavolo del bel vedere lungo strada per sedermi e gustarmi del grana e svariati clementini.
15 minuti di sosta sono più che sufficienti, ed il saggio grillo mi ricorda che la passeggiata non è ancora terminata, devo ancora tornare alla mia Land Rover a San Piero!
Incoraggiato da un tiepido sole percorro il breve tratto asfaltato incrociando un paio di automobilisti decisamente incuriositi dal mio abbigliamento, mentre nel parcheggio antistante la spiaggia di Cavoli una coppia già di una certa età invita il proprio cane a rimontare in auto, evidentemente anche per loro è ora di pranzare.
Attraverso l’asfalto e mi incammino per via del Morione, arrivando fino al campo di calcio di Seccheto, completamente in abbandono.
Di fronte al cancello divelto ed alle sterpaglie giro a destra in direzione nord est, costeggiando successivamente la proprietà di alcune ville che dominano la spiaggia sottostante.
Quindi sulla sinistra un cartello in legno indica con il simbolo di una bicicletta una pista ciclabile che porta a San Piero, la imbocco.
Quanto possa essere ciclabile questo percorso non lo so, per le mie modeste capacità di biker comunque sconsiglio vivamente di farlo in mtb, per lo meno in salita come sto facendo io.
I quasi 19 chilometri fatti adesso si fanno sentire tutti, non solo nelle gambe, anche il fiato comincia a mancarmi.
Farei volentieri a meno di zaino e bastoncini, pur di eliminare il peso che mi porto dietro, ma non posso.
Stringo i denti spinto solo dalla volontà di arrivare, per lo meno alla fine di questa estenuante salita, poi sarà solo uno stradone pianeggiante a condurmi alla meta.
Alle 13 e 18 arrivo finalmente sui campi puliti di Castancoli, ormai solo 1,6 chilometri di strada sterrata mi separano dall’arrivo.
Li percorro in meno di 20 minuti, ed alle 13,37 spengo il gps e salgo in auto.
Piuttosto stanco avvio il motore, prima di ingranare la marcia finisco la poca acqua rimasta della seconda borraccia, è finita e con soddisfazione mi avvio verso casa.
25.11.2007 Max